La fame

Alla fine decisi di prendere quel vecchio fucile appeso nella parte più alta, sopra la finestra della nostra stalla che non aveva più animali da molti mesi. In quel tempo avevo poco più di 10 anni e mio padre era via per la guerra. I partigiani erano venuti a farci visita la settimana prima ma ci portarono via i conigli e le galline perché lassù in montagna avevano fame. Mia madre gli disse che anche noi avevamo fame ma ci rassicurarono dicendoci di portare ancora qualche settimana di pazienza che la guerra sarebbe finita. Per fortuna non era inverno e ci arrangiavamo con quel poco che avevamo, perlopiù qualche coltivazione che cresceva ancora florida vicino al nostro ormai ex letamaio mentre il latte per la mattina andavo a prenderlo io scendendo la valle, a casa di un amico di papà che non era partito per la guerra perché troppo vecchio. Avevo imparato a riconoscere i funghi buoni da quelli cattivi e ci era avanzata un po’ di farina. Mia madre non sembrava sentire più di tanto la mancanza della carne, o forse non ce lo voleva far capire. Mia sorella, di qualche anno più giovane di me invece strillava e si lamentava che sembrava la capra che tenevamo una volta in stalla con gli altri animali. Mia sorella assomigliava più ad una cavalletta che ad un essere umano; le si vedevano solo gli occhi scuri grandi e due gambette secche bianche latte che uscivano da un vestitino sempre più largo. Io invece la fame la sentivo. Mi ero stancato di mangiare sempre le solite cose e quel poco che mangiavo non era sufficiente a riempirmi lo stomaco, mi sentivo debole e spesso mi tremavano le gambe. Da un po’ di tempo, quasi tutte le sere, verso l’imbrunire, vedevo una lepre che zompettava schiva tra i filari della nostra vigna che nessuno ormai curava più. L’erba era molto alta ma le lunghe orecchie in cui risaltava un bianco perlato sulle punte nere, uscivano più in su quasi a sfiorare i grappoli d’uva più bassa. Una di quelle sere mi venne in mente di catturare quel grande coniglio per non sentire più strillare mia sorella e per l’idea che mettere sotto i denti carne fresca avrebbe fatto bene a me ed anche a mia madre; ma non potevo dirgli che avrei preso il fucile di papà perché non me l’avrebbe mai permesso, anzi, l’avrebbe nascosto dove io non lo potessi più trovare. Decisi di fare di testa mia! Mio padre qualche volta mi aveva fatto sparare al cappello dello spaventapasseri del nostro campo e cinque cartucce, forse le uniche che aveva, le teneva al caldo sotto la paglia della cassetta che serviva per le uova delle galline. Ricordo che quella sera, quando mi decisi definitivamente di compiere quell’insolita caccia, minacciava di piovere. Mia madre e mia sorella erano dentro casa e con la scusa di andare a vedere se qualcosa era rimasto sotto la pioggia, entrai nella stalla ed arrampicatomi su di un vecchio sgabello, presi il fucile e due cartucce. Sapevo come si caricava quella vecchia doppietta ma lavorai non poco per aprirla e per armarle i cani. Uscii dalla stalla senza far rumore e stavolta le gambe mi tremavano più per la paura che per la fame. Aspettai più di 10 minuti in testa a quel filare e colpa anche del brutto tempo, il buio sopraggiunto all’improvviso quasi non mi permetteva di distinguere a terra cosa si muovesse. Con gli occhi fissi dove l’avevo vista l’ultima volta, tra un batter di ciglio ed un altro apparvero a circa 20 metri da me quelle due punte perlate, ferme, immobili. Non ero sicuro fosse la lepre ma al batter di ciglio precedente quelle due punte non c’erano e non esitai a far fuoco verso quella direzione, facendo partire entrambe le fucilate, cadendo di schiena. Lasciai il fucile per terra e con una corsa raggiunsi quell’animale che non mi sembrava più il fantasma sfuggente di tutte le sere perché ora giaceva caldo a pochi centimetri da me, con ancora qualche ultima leggera scossa vitale nelle gambe. Lo presi per le grandi orecchie, per quelle due punte bianche complici nel delitto e mi venne spontaneo alzare quell’animale il più alto possibile verso il cielo che proprio in quel momento lanciò un lampo di temporale, illuminandomi gli occhi un po’ socchiusi di quella vita che si stava spegnendo, e lo stava facendo per me, per mia sorella, per mia madre. Il fragore delle fucilate fecero strillare mia sorella, la sentivo dentro casa urlare mentre mia madre corse verso di me, raccogliendo da terra il fucile sul quale stava per inciampare. Non mi sarebbe per niente interessato se mi avesse rimproverato, anzi, ero certo lo avesse fatto ed invece, realizzato quel che era successo, stette qualche secondo a toccare quell’animale ancora caldo; poi mi guardò e mi disse “bravo”…e si mise a piangere.

Giuseppe, 83 anni – Toscana

 

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