“Il senso e il significato della caccia li capiamo solamente se comprendiamo la natura dell'animale e quella dell'uomo. Capire il senso della caccia presuppone che si capisca l'essere umano”
(Ortega Y Gasset)

      

Per comprendere la filosofia della caccia, attività pratica che forse più di altre pone l’uomo all’interno della natura, è sufficiente descriverne una scena. Qui sotto, tratto da “Discorso sulla caccia” del filosofo Ortega, eccone ben rappresentata una in tutto il suo splendore: 

Da principio nella campagna non succede niente. Sui cacciatori gravano ancora le catene del sonno. I battitori incrociano pigri, ancora muti e senza allegria. Si direbbe che nessuno ha voglia di cacciare. Tutto è ancora fermo. La scena è puramente vegetale e quindi immobile. Soltanto le punte di ginestra, di erica e di timo rabbrividiscono un poco, al soffio del vento mattutino. Ci sono altri movimenti, che sembrano movimenti, ma non hanno il dinamismo che rivela forze in attività. Uccelli errabondi volano lenti verso qualche loro tranquilla necessità. Più veloci scivolano accanto all’orecchio insetti sonori ronzando la loro aria di microscopici violini. Il cacciatore si raccoglie in se stesso. È l’ora, si sa, in cui si dicono stupidaggini, che lo invitano a chiudersi ancor più dentro di sé. Non fa niente. Non desidera fare niente. L’improvvisa immersione nella Natura lo ha sbigottito e come annullato. Si sente pianta, entità botanica e si abbandona a quella che nell’animale è quasi una funzione vegetale: respirare. Ma già arrivano, già arrivano le mute dei cani… e all’istante tutto l’orizzonte si carica di una strana elettricità; comincia a muoversi, a distendersi elastico. Scoppia improvviso l’elemento orgiastico, dionisiaco, che scorre e ferve nel fondo di ogni cacciata. Diòniso è il dio cacciatore: «abile cinegeta» – kynegetas sophós – lo chiama Euripide nelle Baccanti. «Sì, sì – risponde il coro – il dio è cacciatore». E c’è una vibrazione universale. E alle cose, prima inerti e molli, son saltati fuori i nervi e gesticolano, annunciano, presagiscono. Eccola, eccola la muta dei cani: bava densa, respiro affannoso, gengive color del corallo e le code arcuate che fustigano l’aria. Difficile trattenerli. Non ne possono più dalla smania di cacciare; gli trasuda dagli occhi, dal labbro, dal pelame. Fantasmi di prede veloci attraverso i loro sensi eccitati di cani puro sangue, mentre, dentro, sono già in corsa pazza.
Torna a stabilirsi una lunga pausa di silenzio e di immobilità. Ma ora la quiete è piena di movimento trattenuto, come la guaina è piena della spada. Si odono, lontani, i primi gridi dei battitori. Davanti al cacciatore tutto continua come prima e tuttavia gli pare di avvertire, anche se non vede niente, un inizio di fervore latente in tutta la macchia; brevi spostamenti da cespuglio a cespuglio, fughe indecise e tutta la fauna minuta del monte che si anima, drizza le orecchie, spia. Senza volerlo al cacciatore l’anima trabocca e resta tesa sopra ìl suo campo di tiro come una rete, aggrappata da una parte e dall’altra con le unghie dell’attenzione. Perché già tutto sta per succedere e in qualsiasi istante quello che sembra un cespuglio può tramutarsi d’un subito, magicamente, in selvaggina. Improvvisamente un latrato di cane rompe il silenzio incombente. Questo latrato non è semplicemente un punto sonoro che scaturisce da un punto del monte e lì rimane, ma sembra invece distendersi rapido in una linea che latra. Udiamo e quasi vediamo il latrato correre svelto, filando veloce nello spazio come una cometa. In un istante sulla lastra del paesaggio è stata incisa la riga del latrato. A questo ne seguono molti, di suoni distinti, che avanzano nella stessa direzione. Si indovina la preda che, stanata, va a corsa vertiginosa, come vento nel vento. Tutta la campagna allora si polarizza, sembra magnetizzata. Il terrore dell’animale inseguito è come un vuoto dove si precipita quanto c’è intorno. Battitori, cani, piccoli animali, tutto va là e anche gli uccelli, spaventati, volano veloci in codesta direzione. Il terrore che fa fuggire l’animale assorbe intero il paesaggio, lo succhia, se la porta correndo dietro di sé e persino allo stesso cacciatore, che di fuori è calmo, il cuore galoppa, salito a battiti da infarto. Il terrore dell’animale… Ma è proprio sicuro che l’animale ha paura? Per lo meno il suo spavento non ha niente a che vedere con lo spavento dell’uomo. Nell’animale la paura è continua, è il suo modo di esistere, è il suo ufficio. Si tratta, dunque, di una paura professionale, e quando qualcosa si professionalizza è già un’altra cosa. Per cui, mentre il timore fa l’uomo lento di riflessi e di movimento, porta le facoltà della bestia al loro maggior rendimento. La vita animale culmina nello spavento. Il cervo evita sicuro l’ostacolo; con precisione millimetrica si infila rapido nello spazio tra due tronchi. Muso al vento, curvo all’indietro il collo, lascia gravitare secondo il peso il regale palco delle corna che equilibra la sua acrobatica andatura come il bilanciere quella del funambolo. Divora lo spazio con rapidità di meteora. Il suo zoccolo tocca appena la terra; tutt’al più – come dice Nietzsche del ballerino – si limita a riconoscerla con la punta del piede; riconoscerla per eliminarla, per lasciarsela indietro. D’improvviso, sopra il dorso di un macchione il cervo appare al cacciatore; lo vede tagliare obliquamente il cielo con l’eleganza di una costellazione, lanciato al di là dallo scatto di molla dei suoi finissimi garretti. Il balzo del capriolo o del cervo – e ancor più quello di certe antilopi – è forse lo spettacolo più bello che si dia in Natura. Di nuovo tocca il suolo a distanza e accelera la sua fuga perché gli sono già alle calcagna, ansando, i cani – i cani autori di tutta questa vertigine, che hanno trasmesso al monte la loro geniale frenesia e ora, dietro alla presa, con la lingua ciondoloni, tesi i corpi per tutta la loro lunghezza, galoppano come ossessi: segugio, alano, bracco, levriere.